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La ricerca? Spaziale L'ateneo friulano va in orbita

Con la missione Eneide sono volati nello spazio anche due esperimenti "friulani". Che promettono passi avanti per la ricerca sull'osteoporosi e sui trapianti. E nel 2006 si riparte.
Anche due esperimenti dell’università di Udine sono “volati” sulla Stazione aerospaziale internazionale con la missione “Eneide”, organizzata dalla Regione Lazio insieme all’Agenzia spaziale europea, Aeronautica militare e Aklenia Spazio (gruppo Finmeccanica). La missione della navetta spaziale russa Soyuz, realizzata dal 15 al 25 aprile scorso, aveva a bordo tre astronauti, fra cui l’italiano Roberto Vittori, che ha portato in orbita 22 esperimenti: quelli dei ricercatori dell’ateneo friulano, in particolare, potrebbero avere sviluppi molto importanti nel campo medico e sanitario. I due test si ponevano l’obiettivo di comprendere gli effetti dell’ambiente spaziale su particolari tipo di cellule e le conseguenze che questi possono avere per la ricerca e la terapia. Ora i ricercatori dell’ateneo friulano hanno cominciato la fase di analisi dei dati. Le applicazioni terapeutiche, per ora, sono lontane, visto che si tratta di esperimenti tendenti a comprende i meccanismi di base che influenzano le attività cellulari nell’ambiente spaziale. Cellule per i trapianti. Il primo esperimento, denominato “Frtl-5”, è coordinato dal professor Francesco Saverio Ambesi con cui collaborano attivamente il professor Francesco Curcio, la ricercatrice Giuseppina Perrella e l’assegnista di ricerca Antonella Meli. Per il gruppo di ricerca, in realtà, questa non è la prima missione spaziale, visto che la collaborazione con l’Agenzia spaziale italiana va avanti già da diversi anni. “In passato – spiega Curcio - abbiamo partecipato ad altre due missioni sperimentali in microgravità per mezzo di “sounding rockets” e ad alcune missioni per mezzo di palloni stratosferici”. Protagoniste di quest’ultimo esperimento sono le cellule di tiroide differenziate, ovvero non modificate o trasformate, che, per la prima volta, sono state esposte per dieci giorni all’ambiente spaziale, quindi in assenza di gravità e colpite dalle radiazioni. L’esperimento, dunque, studia gli effetti delle radiazioni sulle cellule e getta le basi delle conoscenze necessarie per coltivare nello spazio, in futuro, cellule, tessuti e perfino organi. Ora le cellule saranno analizzate nei laboratori di patologia generale dell’ateneo friulano. L’obiettivo? Capire se le cellule hanno subito danni e se l’ambiente spaziale sia favorevole alla loro riaggregazione, in modo da poter procedere al loro trapianto. Se le risposte saranno positive, la ricerca sui trapianti potrà compiere notevoli passi avanti. Le vicende della missione. Le cellule per l’esperimento sono state preparate nei laboratori di Udine e impacchettate direttamente sul sito di lancio, al Cosmodromo di Baikonour (Kazakhstan) da dove è avvenuto il lancio della navicella. L’attracco è avvenuto dopo circa 50 ore di volo e l’esperimento è stato posizionato nell’incubatore Aquarius-B a bordo della stazione spaziale internazionale dove è rimasto fino alla partenza della Soyuz. “Si trattava – spiega Curcio – di un esperimento relativamente semplice dal punto di vista “spaziale”, in quanto non richiedeva alcuna manipolazione tecnica da parte dell’equipaggio, ma soltanto il mantenimento della temperatura fisiologica per le cellule di 37 gradi”. La missione si è svolta con successo, mentre c’è stato qualche problema al momento del rientro in Italia dalla Russia, visto che la compagnia area che doveva imbarcare l’esperimento ha ritenuto le cellule pericolose per i passeggeri. “Le cellule – racconta Curcio – sono così rimaste a mosca per altri due giorni in attesa di ottenere l’imbarco. Attualmente, dunque, sono in corso controlli ulteriori che tengano conto degli sbalzi di temperatura a cui sono state soggette le cellule durante la missione Eneide e nelle fasi di recupero al termine della missione”. Un futuro promettente. Il professor Ambesi coordina la proposta di ricerca che riunisce tutti i ricercatori di biotecnologia in ambito spaziale (60 gruppi per complessivi 500 studiosi in Italia). Il mega-progetto proposto all’Agenzia Spaziale Italiana si chiama “Dalle molecole all’uomo: applicazioni biotecnologiche della ricerca spaziale”, abbreviato in “MoMa” e si pone obiettivi che vanno dallo studio delle misure di prevenzione contro gli effetti delle radiazioni, alla comprensione degli effetti della microgravità sull’organismo, fino alla sperimentazione di specifiche apparecchiature per questi esperimenti. Nell’ambito di questo progetto, nel novembre del 2006 l’università di Udine sarà di nuovo nello spazio con un esperimento su un razzo-sonda per continuare gli studi sugli effetti della microgravità. Per combattere l’osteoporosi. Anche il secondo esperimento, denominato “Bop - Bon Proteomics”, che ha richiesto due anni di preparazione, prende come punto di partenza gli effetti della microgravità su particolari tipi di cellule, gli osteoblasti, che depongono la materia ossea. L’assenza di gravità e di stimolazione meccanica, infatti, è la causa di perdita di massa ossea e di perdita di qualità dell’osso: una situazione paragonabile a quella dell’osteoporosi. L’esperimento è seguito dal professor Gianluca Tell e dal dottorando Adalberto Costessi. Grazie alle moderne tecniche della proteomica, che studia le proteine che compongono la cellula, sarà possibile avere ulteriori informazioni sia a livello molecolare che contribuiranno a capire le cause delle patologie che colpiscono l’osso, in primis l’osteorporosi. Quale la tempistica? Stimiamo di terminare la ricerca entro il prossimo mese di settembre – spiega Tell -, poi cominceranno le diverse fasi sperimentali. L’obiettivo finale è quello di capire quali sono le proteine e i geni importanti per il corretto funzionamento dell’osteoblasta, in modo da individuare anche la terapia farmacologica più adeguata”. Se per individuare nuovi farmaci serviranno almeno 10 anni, i dati sono utili anche per studiare gli effetti dei farmaci già in commercio contro l’osteoporosi: “Attualmente – conclude Tell – sappiamo che questi farmaci funzionano, ma non sappiamo come e quindi la loro risposta varia molto a seconda dei pazienti”.
Simonetta Di Zanutto