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Il museo di Baghdad

    Il problema della tutela dei beni culturali in guerra è risorto con veemenza nell’ultimo quindicennio, con le guerre balcaniche, ma l’opinione pubblica mondiale ne ha preso piena coscienza soprattutto nei conflitti asiatici degli ultimi anni, con la distruzione talebana dei Buddha di Bamiyan e, nel 2003, con il saccheggio del Museo archeologico di Baghdad. Ora, un ampio e ben documentato libro di Frederick Mario Fales, “Saccheggio in Mesopotamia: il Museo di Baghdad dalla nascita dell’Iraq a oggi”, inquadra la drammatica razzia museale dell’8-12 aprile 2003, avvenuta nella totale inazione degli occupanti americani, entro la storia dell’Iraq moderno, fondato, come il Museo stesso, un ottantennio prima sotto la prima occupazione occidentale, da parte inglese. In un quadro storico assai vivace, denso di personaggi di spicco (dalla fondatrice Gertrude Bell ad Agatha Christie, ai grandi Direttori delle Antichità iracheni dopo il 1958, a Saddam stesso, che promosse l’archeologia mesopotamica per i suoi scopi di propaganda interna e internazionale), Fales mostra come il Museo di Baghdad, ricchissimo di reperti che illustravano le culture e l’arte della Mesopotamia dalla preistoria all’Islam, fu un veicolo importante per lo sviluppo culturale di un Iraq “occidentalizzato”, nonostante l’opposizione delle componenti religiose del paese. L’arricchimento costante del museo fu poi garantito da un’accorta “politica” degli scavi archeologici, che vide le grandi Missioni straniere e poi irachene cimentarsi con le civiltà dei Sumeri, Babilonesi, Assiri e Parti senza sosta, a dispetto dei successivi mutamenti di regime. Dal 1991, però, con la Guerra del Golfo e l’embargo, questo immenso patrimonio archeologico finì nelle mani dei “tombaroli”, e venne venduto pezzo per pezzo da una popolazione ridotta alla fame.