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Multiculturalità, nuova sfida per gli infermieri

Ad un uomo non è consigliato porgere la mano ad una donna musulmana, a meno che non sia lei la prima a farlo perché abituata ai nostri usi. Se un bambino cinese non guarda negli occhi un adulto mentre parla, non è indice di scarsa attenzione, ma al contrario, di vigile ascolto. Anche il trattamento del cadavere varia da cultura a cultura. Queste ed altre differenze fra le culture sono emerse al convegno “Di un altro Paese ma non estraneo. La multiculturalità negli ambienti di cura”, organizzato dal corso di laurea in Infermieristica dell’Università di Udine a Pordenone, dall’azienda ospedaliera Santa Maria degli Angeli di Pordenone e dal Consorzio universitario del Friuli. Molte incomprensioni, secondo l’antropologa Daniela Cozzi, nascono dal fatto che ci basiamo sempre sulle nostre abitudi-ni, ad esempio denominare gli stranieri con l’appartenenza alla loro nazione: il nigeriano, il congolese, l’indiano, e di conseguenza la cultura nigeriana, congolese, indiana. “Non significa nulla la malattia nella cultura africana – sostiene l’antropologa – Quale cultura? – si domanda infatti – Non significa niente persino dire “il parto nella cultura nigeriana”, perché dovremo specificare se parliamo degli Ewe, Ogoni, Ibo, Yoruba. Addirittura ci sono differenze dall’essere una giovane albanese di Tirana che può condividere con gli italiani progetti, idoli dei mass media, da una giovane albanese cresciuta in un villaggio delle montagne del nord”. Cozzi ritiene che non è la stessa cosa essere un indiano, fisico nucleare che ha studiato ad Harvard e lavora nell’Area di ricerca di Trieste, come essere un albanese che proviene da una zona rurale e lavora nella zona industriale di Maniago e che viene accolto perché non entra in concorrenza con il mercato del lavoro specializzato. Immaginatevi allora un extracomunitario con le sue abitudini che viene a contatto con la nostra sanità regionale. Si troverà davanti ad un’assistenza che non è la sua, ad un’accoglienza diversa, a situazioni inimmaginabili. Con questa reazione e con tutte quelle (tante quante sono le popolazioni straniere nel nostro territorio e con le disparate soggettività all’interno di una stessa etnia), medici, infermieri e mediatori culturali dovranno fare i conti. Perché quando si parla di immigrazione e di salute entra in gioco sempre un’altra variabile: la comunicazione. Paolo Tomasin, ricercatore sociale dell’Ires, dottorando dell’Università di Trento e membro di Elabora, associazione di professionisti per lo studio di fenomeni socio-economici con sede a Pordenone, ha evidenziato come il Friuli per la sua posizione geografica sia da sempre stato un luogo di “smistamento di popoli”. Ma è dalla fine degli anni Sessanta e l’i-nizio dei Settanta che si registra un superamento delle persone che entrano rispetto a quelle che espatriano. A questo si aggiunge la migrazione interna, ovvero lo spopo-lamento della montagna, e la fuga dei cervelli, il “brain drain”, la migrazione intellettuale di tecnici specializzati, laureati verso le città, altri paesi o all’estero. Il Friuli attira i popoli stranieri non solo per ragioni di natura geografica, ma anche perché è una delle quaranta regioni più ricche d’Europa . In provincia di Pordenone sono oltre i 13mila gli stranieri, dal 1997 il distretto che presenta il tasso più elevato di crescita è quello di Azzano Decimo, seguito dal Sanvitese. Dal 1997 al 2002, il numero di stranieri residenti è più che triplicato, con un’incidenza demografica che si attesta a livello provinciale attorno al 4,52 per cento. Un dato superiore alla media della regione. A livello regionale e in tutte le province (esclusa Gorizia) la presenza femminile è di poco inferiore alla metà dei residenti. Per alcune nazionalità è prevalente, in particolare Polonia, Ungheria, Bulgaria, Russia, Colombia, Filippine la donna fa da apripista alla categoria migratoria. L’immigrazione straniera copre tutte le fasce d’età. Gli stranieri minorenni superano il 20 per cento del totale. Ma nelle scuole ci dovremo attendere un aumento di presenze.Incrementeranno pure gli anziani stranieri che superano i 64 anni. “Lo straniero, colui che viene da fuori – ha chiarito il sociologo Tomasin – ci pone delle domande: sull’identità, sulla cultura, sui diritti e doveri, domande che mettono in gioco l’assetto organizzativo della nostra società. Una buona strada per il multiculturalismo, è far proprie queste domande che gli stranieri ci pongono. Se le loro domande saranno le nostre, allora lo straniero non sarà più estraneo”
Sara Carnelos