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Tirocinio in clinica: «Esperienza utile e indimenticabile»

Grazie alla pratica sul campo i futuri medici applicano la teoria e imparano il rapporto con il paziente
Stefano Celotto
«Se leggo dimentico, se scrivo ricordo, se faccio capisco». Di questa massima della sua professoressa delle medie, Stefano Celotto, 23 anni, di Udine, iscritto al quarto anno di Medicina all’ateneo friulano, ha fatto tesoro. E, con i tirocinii obbligatori della sua facoltà, l’ha messa in pratica. Di suo, invece, ci ha messo quella sensibilità speciale che non s’impara sui libri e che, in futuro, potrebbe fare di lui davvero un buon medico. “Far pratica” in corsia, a Medicina, è un passaggio curricolare: Stefano ha iniziato con i tirocinii già l’anno scorso, frequentando per due settimane il reparto di Medicina interna. E, quest’anno, con i suoi compagni di corso, tra ottobre e novembre ha ruotato fra pneumologia, cardiologia, cardichirurgia e oncologia e, fra febbraio e marzo ha frequentato altri sei reparti, dalle malattie infettive all’ematologia. In sostanza, al termine di ogni periodo di lezione, gli studenti fanno due mesi di tirocinio girando almeno 4-6 unità diverse, con un impegno che dura dal lunedì al venerdì. «Seguiamo i medici nel loro giro visite, in cui verifichiamo le condizioni dei pazienti, discutiamo con loro sui segni e i sintomi delle patologie e facciamo delle ipotesi di diagnosi». Un’esperienza che per Stefano è stata importante. E non solo perché ha imparato a fare i prelievi, a mettere e togliere i punti di sutura e, soprattutto, a eseguire una visita, facendo tutte le domande necessarie a stilare l’anamnesi e auscultandogli il cuore o eseguendo la percussione del torace per portare a termine l’esame obiettivo. «L’esperienza del tirocinio – dice – è estremamente affascinante. Si mette finalmente in pratica ciò che per anni si è studiato senza quasi vedere lo sbocco dei propri sforzi. In questo senso il tirocinio è utile: la medicina non è una scienza perfetta, ma la pratica può essere molto diversa dalla teoria. Sui libri si studiano sintomi, patologie, segni e statistiche, ma quando ci troviamo il paziente davanti non è tutto esattamente come abbiamo studiato prima. Non esiste bianco e nero, ma è tutta una scala di grigi. Questo, però, lo si può capire solo quando si vive quest’esperienza dall’interno». Non solo. «E’ utile capire l’organizzazione dell’ambiente lavorativo, perché in fondo l’ospedale non è solo un luogo di apprendimento, ma anche il nostro futuro luogo di lavoro. Infine, aiuta tantissimo a fissare in testa i concetti trattati a lezione». E fin qui la parte “utile”. Poi c’è quella che Stefano definisce «stupenda». «Quel che più è stato piacevole all’interno dei reparti è stato il contatto con il paziente. Vedere il rapporto stretto che s’instaura fra il medico e il suo assistito ed entrarne a far parte capendo che il paziente non si identifica con la sua malattia, ma ha anche mille dubbi, paure e speranze, quello è stato stupendo. In fin dei conti è stato proprio quel fascino del legame fra medico e paziente a spingermi verso la medicina prima e a orientarmi verso la clinica poi. La vera bellezza di questo mestiere è la cura del paziente, non della malattia: il mettere la propria cultura e le proprie abilità al servizio degli altri per poter salvaguardare la loro vita».